martedì 1 aprile 2008

Roland Barthes - La camera chiara


E qui cominciava a profilarsi la questione essenziale: la riconoscevo io veramente?
Secondo le foto, in certune riconoscevo una regione del suo volto, il tale rapporto del naso con la fronte, il movimento delle sue braccia, delle sue mani. Io la riconoscevo sempre solo a pezzi, vale a dire che il suo essere mi sfuggiva e che, quindi, lei mi sfuggeva interamente. Non era lei, e tuttavia non era nessun altro. L'avrei riconosciuta fra migliaglia di altre donne, e tuttavia non la "ritrovavo". La riconoscevo defferenzialmente, non essenzialmente. La fotografia mi costringeva a un lavoro doloroso; proteso verso l'essenza della sua identità, mi dibattevo fra immagini parzialmente vere, e perciò totalmente false. Dire, davanti alla tal foto, "è quasi lei!" era per me più straziante che non dire davanti alla talaltra "non è affatto lei". Il quasi: atroce regime dell'amore, ma anche condizione deludente del sogno - è per questo che odio i sogni. Infatti, io sogno spesso di lei (anzi, sogno solo lei), ma non è mai completamente lei: nel sogno, essa ha tavolta qualcosa d'in po' fuori posto, di eccessivo: per esempio, è giocosa, o disinvolta - cosa che invece non era mai; oppure io so che è lei, ma non vedo i suoi lineamenti (ma mi chiedo: si vede o si sa, in sogno?): sogno di lei, non la sogno. E davanti alla foto, come nel sogno, è il medesimo sforzo, la stessa fatica di Sisifo: risalire, proteso, verso l'essenza, ridiscendere senza averla contemplata, e ricominciare da capo.

(
tratto da La camera chiara, Roland Barthes, 1980)

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