domenica 17 giugno 2007

Dissonanze 07



1 Giugno (Battles, Apparat, Nathan Fake, Alva Noto, KTL)


L'uno e il due giugno a Roma, al Palazzo dei Congressi all'Eur, si è svolta la settima edizione del Dissonanze Festival, evento ormai abituale per entrare in contatto con alcune delle produzioni internazionali nell'ambito della musica elettronica e delle arti digitali.

Come l'anno scorso, anche quest'anno il grande cubo del Palazzo dei Congressi è vistosamente illuminato da una illuminazione psichedelica (tendente al verde acido) e dalle proiezioni sulle sue immense pareti che attirano lo sguardo già solo intravedendolo dalla Cristoforo Colombo. Sono poco prima delle undici di sera e la gente è già massicciamente riunita e ammassata a ridosso delle biglietterie, e riusciamo ad entrare non prima che la musica proveniente dalla terrazza abbia iniziato a sentirsi.

Corriamo di corsa per le scalinate già stufe del continuo riferimento ad Escher e in men che non si dica ci ritroviamo al cospetto dei Battles. Una delle band più chiacchierate del momento. Non a caso arriviamo proprio sull'attacco di Atlas. Dal vivo la band mantiene perfettamente sia l'impatto sonoro (perdendo giusto qualcosa sul basso a causa dell'impianto) e la precisione, sia la capacità di coinvolgere l'ascoltatore. E' sempre una bella sensazione riuscire a vedere la gente ballare sopra la musica suonata con gli strumenti. Il gruppo alterna pezzi di Mirrored ad altri pezzi ripresi dai due Ep che l'hanno preceduto, riarrangiando sul momento alcune cose e assecondando quell'atteggiamento più prog che noi italiani non smettiamo mai di amare, come durante l'esecuzione di Race In. Il loro set finisce esattamente a mezzanotte.

In una frazione di secondo viene smontato tutta la loro attrezzatura (che è stata pure minacciata da un principio di pioggia), il palco viene liberato ed Apparat si posiziona davanti al suo laptop. Il suo set riprende le stesse atmosfere del suo disco, Walls, che segue la tradizione della laptop music tedesca melodica ed elegante. La gente ascolta e si gode piacevolmente l'atmosfera che però non riuscirà mai a decollare completamente. Per riuscirci dovremmo aspettare Nathan Fake, un giovane ragazzo inglese che dimostrerà di saper non solo di avere un ottimo gusto, ma anche di avere avuto la capacità di riuscire a riadattare la sua musica per il contesto del Dissonanze che dopotutto è molto più ballereccio.

Ci gustiamo il suo set fino alla fine (perdendoci la Modified Toy Orchestra) e poi ci rimmergiamo nel cuore del grande cubo. Nel salone della cultura intanto esplodono i dj set, tra house e techno, che sono la maggiore (se non unica) attrattiva per gran parte del pubblico pagante. Ci prendiamo una pausa ed io faccio una scappata a vedere la fine del set di Alva Noto che però non mi convince più di tanto in questo set basato sul rapporto tra suono e video di sintesi ma senza niente di particolarmente originale. Ora va bene che moltissime persone non hanno la più pallida idea di chi siano Steina e Woody Vasulka, ma qua si scade troppo nel visto e rivisto. Sinceramente una delusione.

Ci penseranno i KTL (Stephen O'Malley & Peter Rehberg) ad ipnotizzarci nella aula magna prima del nostro ritorno a casa. Già entrando nella ampia sala si percepisce una atmosfera da altro mondo. Sul destra un chitarrista dall'inequivocabile aspetto metal sta impugnando una chitarra elettrica davanti a due enormi amplificatori valvolari mentre dal lato opposto del palco il suo socio è sulla sua postazione con davanti due asettici laptop. Proeittato dietro di loro c'è uno strano simbolo eleborato, bianco e immobile sullo sfondo nero, che inquieta per l'aspetto molto religioso. Il loro suono è fuori dal mondo, con dei drones che suonano e risuonano senza sosta in un tessuto inestricabile. Mentre stavo lì seduto avevo l'impressione di essere in un qualche romanzo di Philip K. Dick, all'interno di quella che potrebbe essere definita una chiesa del rumore dove le persone di una società del futuro vanno per fuggire dall'alienazione, alienandosi in modo diverso e consapevole. Alla fine del set mi sorprendo a non essere l'unico ad apprezzare tutto questo e vedo le teste che pensavo immobile e addormentate alzarsi ed applaudire a questi due musicisti.


2 Giugno (Pole, Various Production, Giardini di Mirò, Fennesz & Mike Patton, Planningtorock, Scott Arford)


Arriviamo al Palazzo delle Esposizioni e, rispetto a ieri alla stessa ora, già si nota un'affluenza iniziale minore per questa seconda nottata del Dissonanze Festival 07. Dopo la solita trafila dei pass, entriamo senza fretta nel grande cubo ed andiamo a vedere la situazione in aula magna dove, tra qualche ora, si svolgerà il concerto di Fennesz e Patton. Ma ancora la sala è praticamente vuota ed i tecnici stanno finendo di allestire il palco.

Ripercorriamo le caratteristiche scale intrecciate fino alla terrazza a goderci il fresco e l'inizio del set di Pole.
Pole è un'altro artista tedesco di laptop music, e da tale porta una sensibilità melodica e trimbica nella sua musica di gran gusto, alternando strutture ritmiche attraenti a progressioni melodiche molto rarefatte e d'atmosfera. Molto interessante, anche se forse non ha raggiunto i livelli di Apparat e Nathan Fake che sono saliti sullo stesso palco ieri notte.

A seguire salgono i Various Production. Gruppo inglese formato da una coppia di musicisti elettronici (e quindi coppia di relativi laptop) e da tre cantanti. Fanno un genere che spazia tra l'elettronica ambientale strumentale, a pezzi più energici, tra il dub ed il trip-hop, giocando molto sul contrasto timbrico delle tre voci e sugli assoli delle stesse. Una voce femminile davvero notevole, una calda e afromericana, e la terza (forse la più debole delle tre) di declinazione nu-metal melodica (che provava ad essere a metà strada tra Jonathan Davis e Daron
Malakian) Bravi, anche se spesso le strutture che usano per i pezzi sono un po' troppo rigide e le tre voci non sempre sono così belle assieme.

Si torna in aula magna in tempo per vedere una parte del set dei nostri Giardini di Mirò, che sono evidentemente caldi e a loro agio sul palco, nonstante loro forse sia tra tutti il gruppo di artisti meno pertinenti al contesto di Dissonanze.
Davanti a tutto questo pubblico fanno il loro mestiere al meglio, aiutati dall'ottima acustica della sala e dalla loro lunga esperienza live. Riescono a coinvolgere e convincere anche chi, come me, non ha mai provato particolare simpatia per loro e chiudono il loro set tra i meritatissimi applausi del pubblico.

La sala si riempie in un istante, e c'è un via vai di gente che cerca di trovare un posto più vicino possibile al palco dove si stanno per esibire Micheal Patton e Christian Fennesz, quando improvvisamente salgono sul palco a sistemare personalmente parte della propria attrezzatura, mentre il pubblico sta già applaudendo. L'ex Faith No More (tanto per citare uno degli innumerevoli gruppi e progetti che ha intrapreso in oltre 15 anni di carriera) si presenta come ormai siamo ben abituati. Elegantissimo, in giacca e cravatta e con i capelli cosparsi di brillantina tirati all'indietro. Sembra un personaggio uscito da un film di Tarantino. Molto meno appariscente, ma magnetico a modo suo, Fenensz mantiene l'aspetto austero e spigoloso tipico dei musicisti contemporanei, stemperato solo dalla chitarra elettrica che dopo indosserà. Davvero una strana una coppia.

Tornano momentaneamente di lato mentre i fonici collegano gli ultimi cavi e già un piccolo gruppo di persone cerca di avvicinarsi ai due. Patton nasconde a malapena il suo disappunto per la situazione. Fortunatamente il momento non dura a lungo ed i due risalgono sul palco entro breve tra la gente che affettuosamente grida "Vai Michele" a questo artista che ormai vive in Italia da diversi anni.

La musica di Fennesz parte di sottofondo, partendo come un rumore impercettibile fino a svolgersi piano piano attorno ad i suoni di chitarra riverberata e distante. Patton inizia il suo canto senza parole dialogando con la chitarra che piano piano diventa più incalzante così come il canto del vocalist si tramuta in urla e grida rese filtrate e taglienti dalle eleborazione che fa in contemporanea della sua stessa voce. Il suono risultante è in continua mutazione, elementi che entrano ed escono di scena, in un fluire ipnotico di pause e riprese. Patton in alcuni momenti sembra controllato e posato per poi far esplodere subito dopo la sua voce sui microfoni accompagnando i gesti con il movimento di tutto il corpo. La sua voce è dinamica e cangiante. Sospira, fa versi, rumori, schiocca il palato ed improvvisa beatbox, creando loop e basi che si vanno ad aggiungere al tappeto caldo e straniante prodotto da Fennesz con il suo portatile e la sua chitarra, o da alcune basi (come quelle di un Ave Maria, cantato da un coro polifonico) che praticamente vengono rilette in quella chiave personale che è emersa dalla loro musica.

Vanno avanti per circa tre quarti d'ora in cui quello che suonano sono una sorta di lunghi movimenti appartenenti tutti alla stessa composizione. Davvero un concerto intenso e l'unica critica che gli si può muovere forse è il fatto che i pezzi davano l'impressione di essere stati studiati più come una palestra di improvvisazione per i due artisti che avendo piuttosto in mente un'evoluzione precisa e strutturata in mente, ma questo l'ho comunque percepito come una grande occasione piuttosto che come un limite della loro performance.

Nella sala della cultura stanno esplodendo i dj set, tra il delirio del pubblico più chimico e danzereccio, mentre la terrazza è ormai sotto la piggia.
Decidiamo quindi di tornare in aula magna per assistere ai set seguenti.

Il primo è quello di Planningtorock. Sul palco una vocalist vestita completamente di bianco canta davanti ad uno schermo in cui vengono visualizzate delle riprese dal vivo elaborate a ritmo di musica e rappresentanti strani personaggi mascherati in ambienti metropolitani periferici (mi hanno ricordato moltissimo l'immaginario degli OVO). La sua figura viene completamente assorbita dello schermo, di cui lei diventa una estensione danzante e irrefrenabile mentre le immagini si proiettano sul suo corpo. E' un'ottima cantante e fa scaldare il pubblico in questa sorta di strano genere che varia dal soul alla elettronica più acida, ma mantenendo sempre un atteggiamento giocoso e stravagante.

La serata volgerà poi al termine con il finale di Scott Arford, con un set in cui combina suoni di sintesi neutri e distorti con i quali modula le linee di scansione dello schermo dietro di lui. I suoni sono invasivi al tal punto che colpivano fisicamente lo spettatore, ma spesso la sensazione era tutt'altro che piacevole. Non mi ha convinto più di tanto.

(anche su www.ondalternativa.it)

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